31 Maggio 2021
Viaggio in Borgogna, primavera 2021 – parte 2
Martedì 11 maggio
Svegliarsi con la fame di vino, terra e quello che ci cresce sopra e sotto. La Borgogna riesce a dare un senso al ciclo della natura coltivata e agli stessi sensi, che in fondo, come lo spirito che ci anima, vogliono solo essere ricambiati. E così inizia il secondo giorno di incontri e assaggi con i produttori, un dare e avere che premia anche quando il cielo butta lacrime e il mercato tace irrequieto. La voglia di vivere, nonostante i lamenti dei padri padroni di questo pianeta, che poi non ne ha, e la paura atavica di sentirsi padroni di se stessi, si libera libellula quando le labbra, prima ancora degli occhi, incontrano un luogo divino. Qualcuno lo chiama paradiso, altri eden, eldorado, bengodi, mecca, nirvana, serendipity, tahiti. Altri ancora terroir.
Morey Saint Denis appare consequenziale, il primo appuntamento è con Jacques Devauges, regisseur neo-eletto alla guida di Domaine Des Lambrays. Lanciamo una moneta per decidere se parlare più della persona o del luogo e dei vini in queste righe ritagliate. Il Clos des Lambrays si innalza come un tempio tra i grand cru Clos Saint Denis e Clos Des Tart. Un vigneto-vino, monopolio mancato per un soffio e oggi proprietà del gruppo LVMH, che incarna la testa e la coda di quella moneta che lasciamo in volo mentre discendiamo in cantina. Come templari guidati da un mago, Jacques ci descrive il suo lavoro di parcellizzazione del mitico climat, non tanto in termini di lieux dits, quanto di tasselli disposti lungo tre assi suddivisi per diversità di suolo, età delle viti, esposizione, altitudine e “carattere”. Un fisico-matematico che restituisce l’intuito geniale da secoli trasmesso, e forse, come sembra volerci dire, non ancora catturato di questo vino. O dobbiamo dire terra: poco meno di nove ettari vitati suddivisi in 203 tasselli o simil-giornate, detti ouvrées in gergo locale (430 mq circa per unità) che alla fine dei conti si ricompongono nel bicchiere sprigionando calore, ombra, seta, velluto, tannino, aria, profumo di Lambrays. Sembra complicato, ma non lo è. Ci vuole solo una dedizione assoluta, che ritroviamo nell’assaggio dai legni delle minime-massima sfumature, suddivise in 12 lotti micro vinificati, che tra qualche mese andranno a comporre la versione finale di Clos des Lambrays 2020.
Dopo una visita del genere si esce imbambolati con promessa interposta che da “domani” anche noi, per qualche motivo dovuto, saremo migliori delle nostre etichette.
Senza perdere l’abbrivio, ci dirigiamo verso Vosne Romanée, il salotto a cielo aperto della Côte D’Or. La cantina di D’Eugénie si trova tra le sponde di vigne leggendarie che si distendono come onde lunghe a richiamare il mare che milioni e milioni di anni fa racchiudevano questo angolo di mondo. Ci accoglie energico più che mai Michel Mallard, enologo e factotum, l’uomo che non ha paura delle sfide, nonostante il domaine sia di proprietà del gruppo superlusso di François Pinault. Impaziente di metterci di fronte ai fatti, Michel ci arma di bicchiere e scendiamo le poche modeste scale verso la cantina. Come avvenuto da Des Lambrays, rimaniamo impressionati dalle file in meno dei legni, che di solito si accatastano su due livelli: la 2020 non è stata certo abbondante per il Pinot Noir in Côte de Nuits. Il soffitto basso e le luci bianche tipo bunker distolgono l’attenzione solo per pochi secondi prima che parta il coro austero e baritonale degli assaggi da bottiglia della 2019. Attacchiamo con i Vosne-Romanée comunali, inclusa la parcella monopolio Clos D’Eugénie, ancora resistenti e avvolti nelle loro promesse; a seguire l’unico premier cru di famiglia, Vosne-Romanée Aux Brûlées, turgido con un riverbero silente di fiori carnosi e campi di grano, fino ad arrivare agli intarsi appena percettibili del trittico dei grands crus – Echezeaux, Grands Echezeaux e Clos Vougeot. – oggi vulcani dormienti. Michel scalpita e punge con lo sguardo, perché vuole sapere cosa ne pensiamo. Chiusi…?
“Si,” risponde, un’esplosione muta che attende il lento lavoro dell’ossigeno e la pazienza della bottiglia. I suoi vini sono diversi, e non perché la materia è troppa o il tannino ruvido, anzi. Il suo intento sembra essere quello di catturare tutti gli elementi con una fitta pennellata astratta, immortalandoli tramite affinamenti in ambienti freddi e umidi grazie all’immissione diretta dell’aria esterna in cantina nei mesi invernali, evitano l’utilizzo di solforosa, pratica raggiunta per gradi e ora consolidata. Vini energici che rispondono all’ossigeno, senza dover attendere un milione di anni, anche se possono apparire come eterni sconosciuti fino a quando, come ali di farfalla, finalmente un giorno l’astratto diventa dettaglio. Osare apre le porte al futuro, basta essere curiosi per ampliare la conoscenza con un territorio che, seppur consacrato, da sempre sa dialogare con le menti umane.
Gilly-lès-Cìteaux spunta come una zona cuscinetto tra Vouegot e Chambolle-Musigny, una sorta di check-point Charlie o passaggio segreto verso terre sante. Da qui passava la vecchia Route Nationale tra case giocattolo e capannoni, tra questi la cantina di Christian Clerget con adiacente dimora oggi adibita a ufficio dove ci incontriamo con la moglie Isabelle e la figlia Justine. Attraversiamo la strada ampia e deserta senza neanche guardare per recarci in cantina. Tra gli attrezzi e le vasche di vinificazione scorgiamo una parete coperta di foto dove spiccano vette di continenti lontani raggiunte da Christian nelle sue spedizioni montane, altra grande passione oltre alla vigna. Dal 2017 è Justine ad occuparsi della vinificazione e non si può dire che l’andamento stagionale degli ultimi anni le abbiano spianato la strada. Tra geli e canicole è arrivata anche una pandemia, ma la 2020 sarà ricordata più per la nascita di suo figlio, Auguste, oltre che per essere la più precoce di sempre. Justine ha lo sguardo vivace e modi aggraziati che si rivelano essere il filo conduttore anche nei vini. Assaggiamo l’annata 2019 da bottiglia, i vigneti per un totale di 6 ettari sono dispiegati in più villaggi: Chambolle-Musigny, Vougeot, Vosne-Romanée, Morey-Saint-Denis.
Una gamma articolata e molto curata, con alcune gemme per gli appassionati di denominazioni semi-sconosciute come Vougeot Premier Cru Les Petits Vougeot, imbottigliato da una manciata a malapena di produttori, o la parcella village, Vosne-Romanée Les Violettes, da cui proviene un rosso delicato e seducente come il nome. Il cambio generazionale in Borgogna spesso prevede un periodo di convivenza professionale tra genitore e figlio e i vini ne sono i messaggeri, o sentinelle. Il garbo spartano di Christian, a cui si accendono gli occhi ogni volta che si avvicina Isabelle, si è trasmesso in Justine senza toglierle in alcun modo la personalità o la voglia di dirigere questa piccola orchestra a modo suo.
Come le radici e le chiome degli alberi, tutto torna, usando le stesse note si può raccontare una canzone in infiniti modi diversi.
To be continued…